In questa guida scopriamo tutto sulla prova mesotelioma in senso giuridico nell’ordinamento civile e penale italiano. Vediamo nel dettaglio cos’è e come funziona un incidente probatorio. In particolare ci occupiamo di capire a chi spetta l’onere della prova in caso di omicidio colposo per mesotelioma e, in generale, in caso di malattie asbesto correlate.
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Stabilire a chi spetta portare la prova mesotelioma che sia contratto sul luogo di lavoro è un aspetto fondamentale per ottenere tutte le prestazioni a cui si ha diritto. Per capire come funziona l’onere della prova e quali sono le prove che possono essere utilizzate in caso di processo penale o nel civile è importante conoscere in cosa consiste la prova nel diritto.
L’ONA – Osservatorio Nazionale Amianto, insieme all’Avvocato Bonanni, difende tutte le vittime di esposizione ad asbesto e ad altri cancerogeni. Queste, una volta provata l’origine professionale della malattia, hanno diritto a una serie di benefici previsti dalla legge e all’integrale risarcimento dei danni. In caso di decesso, questi diritti spettano ai familiari superstiti.
Che cos’è la prova in ambito giuridico? La prova in senso giuridico legale è la dimostrazione dell’esistenza di determinati fatti giuridici. La prova può avvenire anche attraverso la dimostrazione dell’esistenza di altri fatti da cui è possibile arguire l’esistenza dei fatti che s’intendono provare in prima istanza.
L’istituto della prova esiste tanto nel diritto civile quanto in quello penale. La prova nell’ordinamento civile italiano è lo strumento attraverso il quale il giudice forma il suo convincimento riguardo ai fatti allegati dalle parti.
Nel processo civile, l’art. 116 del Codice di procedura civile adotta il principio del libero convincimento del giudice, rimettendo la valutazione delle prove (prove libere) al suo “prudente apprezzamento”, fatte salve le norme di legge che conferiscono ad alcune fattispecie di prova la natura di prove legali. In questi ultimi casi il Codice Civile prevede esplicitamente che esse non possano e non debbano essere oggetto della valutazione del giudice, il quale può pertanto solo prenderne atto senza rilievo di ogni dubbio.
Nel civile ci sono varie tipologie di prova, anche nel caso di prova mesotelioma. Le prove nel diritto civile si differenziano in prove precostituite e costituende. Tipiche prove legali sono la confessione e il giuramento.
Le prove precostituite sono quelle che si formano fuori e, di solito, prima del processo, nel quale entrano attraverso un semplice atto di esibizione o di produzione. Ne sono un esempio i documenti o prove documentali che si formano fuori del processo e che entrano nel processo attraverso la loro inclusione nel fascicolo di parte al momento della costituzione o anche in seguito, fino alla precisazione delle conclusioni.
I documenti sono dotati dell’attitudine a produrre efficacia probatoria. In altre parole al giudice non rimane che valutarli nella fase di decisione e non in quella di istruzione. Sono documenti le scritture pubbliche o private, ma anche diverse rappresentazioni di fatti (ad esempio, fotografie e disegni).
Le prove costituende sono quei mezzi di prova che si formano soltanto nel processo, come risultato di attività istruttoria in senso stretto. Ne sono un esempio le prove orali, quelle testimoniali, la confessione e il giuramento. Nel diritto processuale civile italiano le prove costituende, che si formano nel processo, necessitano di una doppia valutazione da parte del giudice istruttore. Devono cioè essere ammesse nel processo e in seguito valutate per la validità.
Le tre prove costituende (non documentali) principali sono tutte di tipo orale e si differenziano dalle prove precostituite.
La confessione è la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti a essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte. La confessione è giudiziale o stragiudiziale. Quella giudiziale viene fatta direttamente in udienza. Basta semplicemente analizzarne il contenuto in quanto viene formata già provata, essendo davanti al giudice (probatio probata). La confessione giudiziale, ex art.228 c.p.c., può essere fatta spontaneamente o provocata da un interrogatorio formale.
La confessione stragiudiziale invece deve essere provata sia nel contenuto sia nel suo effettivo accadimento, con testimonianza, se possibile, in caso di confessione orale o con documento, se scritta. Oggetto della confessione può essere solo uno o più fatti della causa.
La confessione ha un’efficacia, almeno di regola, simile alla prova legale e vincola il giudice all’apprezzamento, salvo, però, che non verta su fatti relativi a diritti non disponibili. Questo nel caso di confessione giudiziale o stragiudiziale fatta alla controparte, mentre negli altri casi fatta a un terzo o in un testamento, è liberamente valutabile dal giudice. Deve essere, ovviamente, fatta da persona capace relativamente ai diritti oggetto della confessione stessa.
Invece il giuramento è la dichiarazione che una parte fa in giudizio della verità di determinati fatti, accompagnata dal solenne giuramento. Può essere solo giudiziale. Si distingue in:
Il giuramento non è sempre ammesso, come su fatti illeciti, su contratti che richiedono la forma scritta ad subtantiam, su diritti disponibili o su fatti che il pubblico ufficiale attesta esser avvenuti in sua presenza.
Se una delle parti si rifiuta di giurare si determina la soccombenza della stessa. È, dunque, una prova legale dotata di estrema forza.
La testimonianza è la dichiarazione resa da una parte estranea al processo, chiamata teste o testimone, su fatti rilevanti per la decisione della causa. Il teste è invitato a esporre i soli fatti materiali, senza dare alcun giudizio. Le dichiarazioni rese dovranno essere valutate da parte del giudice, in base alla loro compatibilità con gli altri elementi probatori che si ha a disposizione.
Nel processo civile è il giudice che pone le domande, d’ufficio o su istanza dei procuratori-difensori. Le parti e il P.M. non possono mai interrogare direttamente il testimone. Il giudice invece di solito si limita a controllare che le domande poste dagli avvocati siano formalmente legittime e che siano poste in modo preciso e non ambiguo.
Ai sensi dell’art 251 c.p.c., il teste prima di rispondere deve sottoporsi a giuramento. La falsa testimonianza è reato punito con la reclusione. Nel caso in cui il teste rifiutasse di prestare giuramento, rifiutasse di deporre senza giustificato motivo o qualora facesse dichiarazioni palesemente false, può essere denunciato dal giudice al P.M.
Le prove si definiscono dirette o indirette a seconda che siano idonee a dimostrare immediatamente un fatto senza alcuna operazione logica.
Le prove indirette sono chiamate indizi e l’operazione logica che richiedono si chiama “presunzione semplice”. Disciplinata dall’art. 2727 c.c. , esso dispone che “le presunzioni sono le conseguenze che [la legge o ] il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato” a cui si aggiunge l’interpretazione degli indizi come presunzioni “gravi, precise e concordanti” (ex art. 2729).
A seconda della loro intensità probatoria, le prove possono essere distinte in prove piene o di verosomiglianza.
La prova di verosimiglianza è richiesta quando la legge non chiede un fatto pieno, ma semplicemente uno probabile. È sufficiente nel caso in cui il convincimento sia fondato su un fatto affermatosi “credibile” o “verosimile”, come in sede cautelare si tratta di “fumus boni juris”, che significa letteralmente il “fumo del bene giuridico”, cioè il “sospetto dell’esistenza di un diritto”.
Altrimenti si può parlare di prova propriamente detta e argomento di prova. Questo si concretizza in un fatto che da solo non è sufficiente a fondare il convincimento giudiziale, ma da cui tuttavia non si può prescindere in quanto possibile punto di riferimento per quest’ultimo.
L’assunzione dei mezzi di prova è disciplinata nel codice di procedura civile. Per le prove precostituite (documentali) basta la produzione e la valutazione. Invece per quelle costituende c’è un iter più macchinoso, basato su tre fasi:
Compito della direzione dell’assunzione delle prove è del giudice istruttore. Egli può assumere le prove direttamente, sentendo i testimoni in udienza, oppure può provvedervi per mezzo di un incaricato (consulente tecnico d’ufficio o perito).
Diversamente dal diritto penale, il diritto civile non ha un’apposita norma che vieti l’utilizzo delle prove contra legem, per cui, nei contenziosi, è utilizzabile la prova ottenuta illegalmente, nell’ambito dello stesso procedimento o eventualmente in procedimenti giudiziari di differente natura.
Ogni procedimento è autonomo nella valutazione della legittimità dell’acquisizione della prova, che potrebbe essere accolta in un procedimento penale e non riconosciuta in un altro contenzioso. Tuttavia, l’acquisizione già avvenuta in altri procedimenti può motivare l’acquisizione delle stesse nel processo civile, a maggior ragione per il fatto che nel diritto civile la valutazione di legittimità non è obbligatoria.
Al contrario, in diritto la prova legale è quella prova la cui attendibilità non è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice ma è predeterminata dal legislatore.
In altri termini, l’inferenza che porta dal dato probatorio (factum probans) al fatto da provare (factum probandum) non è fatta di volta in volta dal giudice ma stabilita una volta per tutte dal legislatore. La prova legale esiste solo nel diritto civile.
Che cos’è la prova nel diritto penale? Il nuovo codice di procedura penale italiano entrato in vigore nel 1989 ha dato luogo ad alcuni cambiamenti sostanziali. La figura dell’investigatore è stata ammessa a comparire in processo in qualità di consulente tecnico della difesa. Inoltre l’art. 190 c.p.p. stabilisce che “le prove sono ammesse a richiesta di parte”. Sancisce inoltre il “principio di parità fra difesa e accusa” (P.M. e difensore), sostanziato nel diritto di entrambi i soggetti alla ricerca delle prove.
Le prove nel diritto processuale penale italiano sono disciplinate dal Libro III del Codice di Procedura Penale. L’art.187 comma c.p.p., norma di apertura del Titolo I, in particolare chiarisce che sono oggetto di prova penale:
La prova nel diritto processuale penale può appartenere a tre gruppi:
La prova materiale consiste in oggetti direttamente connessi ai fatti e ai rilievi della polizia scientifica sugli stessi oggetti. Questi ultimi vengono prelevati dalle forze di polizia e custoditi dall’autorità giudiziaria.
Invece la prova critica (o indizio) consiste in quel ragionamento che da un fatto provato (circostanza indiziante) ricava l’esistenza di un ulteriore fatto da provare. Questo può essere sia il fatto addebitato all’imputato (fatto principale) sia un fatto secondario (altra circostanza indiziante).
Il collegamento fra la circostanza indiziante e l’ulteriore fatto da provare è rappresentato da un’inferenza, la quale è fondata su una massima d’esperienza o su una legge scientifica.
L’indizio è funzionale alla ricostruzione di un fatto storico esclusivamente quando esistano altre prove che escludo una diversa ricostruzione dell’accaduto. L’art. 192, comma 2, c.p.p. afferma che “l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi non siano gravi, precisi e concordanti”.
Gli indizi gravi sono quegli indizi che hanno un elevato grado di persuasività, in quanto resistenti alle obiezioni. Invece si definiscono precisi quegli indizi che sono stati ampiamente provati. Infine concordanti sono gli indizi che si orientano verso una stessa conclusione, riferendosi alla totalità delle prove critiche a disposizione del giudice per la ricostruzione del fatto storico.
La prova storica (o rappresentativa) consiste in quel ragionamento che da un fatto noto, ad esempio ciò che riferisce un testimone nel corso di una deposizione, ricava l’esistenza di un fatto da provare.
Si distingue dalla prova critica in ragione della struttura del procedimento logico che è sotteso a questa tipologia probatoria. Tramite la prova rappresentativa, infatti, si prova un determinato fatto storico mediante un fatto noto. Tramite gli indizi, invece, un fatto storico viene provato grazie all’inferenza che lo lega a un fatto già provato, basata su massime d’esperienza o regole scientifiche.
Anche la prova storica deve essere sottoposta al vaglio di attendibilità da parte del giudice. In particolare l’autorità deve effettuare un duplice controllo su:
Una prova si dice atipica quando non trova disciplina all’interno del codice di procedura penale.
Viene definita atipica una prova che mira a ottenere un risultato diverso da quelli perseguiti dai mezzi di prova tipizzati dal codice di procedura penale. In una seconda accezione è considerata atipica quella prova che si svolge con modalità diverse da quelle previste da un mezzo di prova tipico. L’atipicità riguarda quindi la modalità di svolgimento. In un terzo significato l’atipicità consiste nell’usare un mezzo di prova che persegue un determinato risultato per ottenere invece il risultato di un diverso mezzo di prova tipico, in una sede diversa o per un uso diverso da quelli previsti dalla legge.
L’art. 189 c.p.p. dispone: “Quando è richiesta una prova non disciplinata dalla legge, il giudice può assumerla se essa risulta idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudica la libertà morale della persona. Il giudice procede all’ammissione sentite le parti sulle modalità di assunzione della prova.”
L’assunzione delle prove è una fase molto importante e delicata, data l’incidenza che ha questo elemento riguardo l’esito del processo. Il principio base è quello dispositivo, espressamente previsto dall’art.190 c.p.p., per il quale le prove sono ammesse dal giudice a richiesta di parte, salvo che siano contrarie alla legge o manifestamente superflue o irrilevanti.
Oltre alla limitata possibilità del giudice di non ammettere la prova, come una prova mesotelioma, è importante notare che l’iniziativa probatoria, dato l’aspetto accusatorio del processo penale, è quasi esclusivamente riservata alle parti. Il giudice provvede all’ammissione delle prove con ordinanza.
Attraverso il principio del libero convincimento, il giudice è vincolato a valutare tutti i fatti prodotti dalle parti, ma non a utilizzare tali fatti necessariamente come prove. Infatti motivando la sua decisione (192 c.p.p.), può prescinderne o interpretarli diversamente da come sono stati prospettati dall’accusa o dalla difesa.
L’indizio deve essere grave, preciso e concordante, altrimenti il giudice non può ritenere accertato il fatto.
L’incidente probatorio è un istituto del diritto processuale penale italiano previsto e disciplinato dall’art. 392 del codice di procedura penale italiano. Si chiama incidente perché è una procedura che avviene più raramente rispetto ai normali atti di indagine o in modo straordinario.
Consiste in un’udienza che si svolge in camera di consiglio, senza la presenza del pubblico. Ha la funzione di anticipare l’acquisizione e la formazione di una prova durante le indagini preliminari, purché pertinente e rilevante ai sensi dell’art. 190 c.p.p.
Lo scopo è quello di assumere una prova in una fase pregressa rispetto a quanto accade normalmente, non essendo possibile attendere sino al dibattimento. Questa procedura viene scelta quando ci sono potenziali limitazioni di tempo legate alla formazione della prova mesotelioma. Si vuole evitare il rischio che, con il trascorrere del tempo, la fonte di prova si comprometta o venga meno la genuinità della prova stessa.
L’onere della prova è una regola che trova il proprio fondamento nel principio giuridico tradizionale secondo cui onus probandi incumbit ei qui dicit. Esso si sostanzia essenzialmente nel porre, a carico della parte che allega un fatto a sé favorevole, il dovere di darne prova dell’esistenza.
In altre parole, secondo la lettera della legge (art. 2697, 1° comma, c.c.), “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”. Allo stesso modo, “chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda” (art. 2697, 2° comma, c.c.).
La regola dell’onere della prova può essere intesa sia in senso soggettivo sia in senso oggettivo. Nel primo caso questo principio s’intende come l’onere di provare i fatti che costituiscono il fondamento delle pretese, per fornire al giudice tutti gli elementi necessari e sufficienti affinché egli addivenga a una decisione corretta e consapevole. L’onere della prova in senso oggettivo consente, invece, al giudice di emettere in ogni caso la decisione in merito all’accoglimento o al rigetto della domanda, quando, nonostante l’attività probatoria, egli non sia riuscito a raggiungere la verità dei fatti.
All’attore si richiede di provare i fatti che stanno alla base della propria domanda, mentre al convenuto spetta dimostrare la non veridicità di questi fatti, cioè la loro inidoneità a costituire valido fondamento della domanda dell’attore o provare l’esistenza di altri fatti capaci di modificare o estinguere il diritto dell’attore.
I mezzi di ricerca della prova tipici sono disciplinati nel Titolo III del Libro III del codice di procedura penale italiano. Essi sono:
L’accertamento, richiedendo un riscontro sulla condotta, sul nesso di causalità, sull’evento e sul pregiudizio, ha carattere fortemente valutativo. Pertanto, la verificazione spetta al giudice.
L’esposizione alle fibre di amianto causa gravi malattie. Queste sono provocate dall’inalazione o ingestione delle sottili fibre che si distaccano dai minerali di amianto. In primo luogo causano infiammazioni (asbestosi, placche e ispessimenti pleurici). Poi si sviluppano delle neoplasie. Tra queste il più aggressivo è il mesotelioma.
Le malattie da amianto non colpiscono solo le vie respiratori ma possono colpire tutti i distretti corporei. Inoltre non esiste una dose di esposizione al di sotto della quale si può essere sicuri di non ammalarsi. Ciò è confermato anche dalla monografia IARC. Inoltre la situazione di emergenza in cui si trova il territorio italiano data la massiccia presenza ancora di materiale amianto è delineata in “Il libro bianco delle morti di amianto in Italia – Ed. 2022“
In caso di malattia professionale, contratta a seguito dell’esposizione lavorativa alle polveri di amianto, il datore di lavoro è responsabile se non dimostra di aver adottato tutte le misure generiche di prudenza necessarie per la tutela della salute dei lavoratori. In caso di morte del lavoratore malato il datore di lavoro può essere accusato di omicidio colposo.
L’inosservanza degli obblighi di protezione espressamente previsti per la tutela del lavoratore dalla normativa antinfortunistica all’epoca vigente comporta responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c. e dell’art. 2043 c.c.
L’INAIL ha inserito le patologie asbesto correlate di origine professionale in tre liste. Nella Lista I compaiono quelle a elevata probabilità di origine lavorativa:
Queste patologie sono assistite dalla presunzione legale di origine. Quindi sul lavoratore grava l’onere della prova della sola presenza della noxa patogena nell’ambiente lavorativo, come precisato dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 23653/16. Ciò vale quindi anche per la prova mesotelioma.
Nella lista II, in cui l’origine lavorativa è di limitata probabilità, sono state inserite:
Infine nella lista III, in cui l’origine lavorativa è possibile, è inserito solo il tumore dell’esofago. Queste ultime liste non hanno la presunzione legale d’origine. Perciò spetta al lavoratore dimostrare il nesso causale.
La sentenza n° 30328/2002, la sentenza Franzese, è una sorta di pietra miliare in tema di nesso causale in materia penale.
Ha affermato il principio di formulazione del giudizio di nesso causale secondo il criterio di alto o elevato grado di credibilità razionale o di probabilità logica ai fini della relazione eziologica tra omissione ed evento. Esso, a sua volta, deve essere contemperato dal richiamo ai principi del sapere scientifico riferibili al caso concreto.
Oltre a questo, la Cassazione, ha fondato la sua decisione proprio sul giudizio controfattuale. Questi principi hanno poi trovato applicazione anche in tema di responsabilità per malattia professionale, in particolare per le malattie asbesto correlate.
In più la Corte di legittimità, a partire dalla sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n° 30328/2002, ha sovente precisato la necessità del giudizio controfattuale, imponendo che la decisione sia ancorata a leggi scientifiche e a dati fattuali.
Su tali affermazioni si fonda anche la sentenza Cass. Pen., Sez. IV, n° 23339/2013. Solo dopo il “giudizio esplicativo”, è possibile domandarsi, tramite il “giudizio predittivo”, cosa si sarebbe verificato se fosse intervenuta la condotta doverosa.
La vittima di malattia asbesto correlata, come il mesotelioma, ha diritto all’integrale risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali.
Le acquisizioni istruttorie sono sufficienti a provare il nesso di causalità tra esposizione del lavoratore all’amianto e malattia contratta. Deve essere così riconosciuto in via equitativa anche agli eredi il danno differenziale dal quale si detrae la prestazione INAIL, anche se la vittima non ha ancora fatto domanda all’Istituto assicurativo.
Per quanto riguarda i danni non patrimoniali, a quello biologico si aggiungono il danno morale e quello esistenziale, che passano agli eredi legittimi in caso di morte del malato. Nell’ipotesi in cui la morte sopravvenga dopo apprezzabile lasso di tempo dall’evento lesivo, è configurabile e trasmissibile agli eredi anche il danno biologico terminale, cioè da invalidità temporanea assoluta.
La liquidazione equitativa del danno in questione va effettuata commisurando la componente del danno biologico all’indennizzo da invalidità temporanea assoluta e valutando la componente del danno non patrimoniale mediante una personalizzazione che tenga conto dell’entità e dell’intensità delle conseguenze derivanti dalla lesione della salute in vista del prevedibile “exitus”.
Ha fatto luce su alcuni aspetti del nesso di causalità il magistrato Beniamino Deidda della Procura di Firenze nel suo intervento “Stato della Magistratura su condanne per amianto” durante il convegno del 14.11.2012 “Lotta all’amianto: il Diritto incontra la scienza“.
In caso di patologie asbesto correlate, qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell’attività lavorativa per esposizione all’amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della sicurezza sul lavoro dal rischio espositivo, secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia.
Infatti è irrilevante la circostanza che il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all’introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto, quali quelle contenute nel D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277, successivamente abrogato dal D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81.
L’ONA fornisce a tutte le vittime esposte all’amianto che hanno subito danni alla salute e ai loro familiari un servizio di assistenza medica e assistenza legale, entrambe gratuite. La consulenza gratuita è possibile chiamando il numero verde o compilando il form.